Intervento del Direttore della 63. Mostra, Marco Müller

Marco MullerMarco MüllerMarco MüllerVenezia 63. Ricominciano le avventure dell?occhio, le parabole della visione planetaria. E i film ?giusti?, quegli oggetti singolari e singolarissimi di cui non possiamo fare a meno, non dovrebbero mancare all?appello. Se ci siamo avvicinati al risultato auspicato, è perchè abbiamo lavorato con passione: sapevamo di aver alle spalle due edizioni ?di consolidamento?, ci potevamo regalare un?edizione di esplorazione a tutto campo. Senza alcuna velleitaria fuga in avanti. Riflessivi quanto è stato possibile (sotto il peso di oltre 1400 lungometraggi visionati), abbiamo cercato di guardare tanto allo stile quanto al negozio, cercando di non perdere lucidità. (Passione e lucidità, termini difficili quanto pochi altri da coniugare). Forse, siamo tutti stanchi di macchine inutilmente complicate e ingombranti. Vale, allora, sopra tutte esse, la forza di un gesto estetico, l?evidenza di una poetica. Dovevamo, dunque, qui a Venezia, provare a decidere a quali luoghi del cinema andava data particolare visibilità. Affrontare rischi e tentare strade inedite, sperimentare il nuovo senza spettacolarizzarlo, immergerci nell?originalità senza coprirci le spalle con l?idea.

Il pessimismo della ragione ci porterebbe ad affermare che il tempo dei festival volge ormai al suo culmine. Piaccia o meno, accettiamo di vedere che molti festival continuano a rimuginare il proprio peccato originale, turistico-promozionale, l?essere vetrina e piattaforma di lancio della parte più visibile, spesso già vistosa, dell?esistente cinematografico. Peccato da scontare fornendo temporaneo surrogato ai buchi, alle carenze del circuito di diffusione e informazione. L?ottimismo della volontà, invece, ci porta a mettere a fuoco una frattura, su cui magari si è talvolta preferito chiudere gli occhi, tra le più consuete idee-festival e la filosofia in movimento (dovrebbe essere in via di ridefinizione costante) di una Mostra (internazionale) d?Arte (cinematografica) . Non tutti i tentativi di rinnovamento sono votati alla sconfitta: senza pertanto ipotizzare palingenesi (non è ancora il momento), questo nostro ?non-festival?, la Mostra di Venezia, potrebbe infine farsi spazio autonomo, effimero quanto vogliamo ma autonomo sul serio, momento di rottura di equilibri cristallizzati dal conformismo, dall?interesse (e dal disinteresse), dal vizio di abitudine. Punto di rottura di consuetudini, punto di partenza per la conoscenza e l?approfondimento, la visione e la discussione delle manifestazioni di bradisismi, sommovimenti e fermenti che, ancora, a intervalli irregolari, riescono a investire i diversi modi di fare cinema, a Ovest Sud Est e Nord.

Forse siamo nuovamente entrati in un momento in cui il piacere di andare al cinema non risulta nè facile, nè tanto meno naturale. Resta qualcosa di familiare, eppure è già irriconoscibile, come una necessità che scopriamo essere insieme lusso e mistero, e non possiamo più soddisfare senza accompagnarla alla curiosità per il suo significato, e alla ricerca di questo. Sul piano immediato, però, Venezia 63. non ha tante risposte nuove. E? accaduto, tuttavia, che quelle vecchie si sono disposte come i frammenti di un disegno irregolare, che potrebbe celare la trama di un?unità segreta. Senza pertanto farsene un idolo, tornerebbe utile l?idea di ?montare? una filosofia grazie a opere che parlino da sole: la loro scelta e disposizione lascerebbero filtrare la filosofia dell?edizione in corso, invece di costringerla in una forma fatta di concetti generali, che distruggerebbe ogni orizzonte speculativo. Andiamoci dentro, sino in fondo, allora, a quelle singolarità nuove. Non rinunciamo a interpretarle. Potremo privilegiare così la selezione critica di valori da opporre ad altri valori, prendere posizione. Per ?capire? un singolo film non basta il solo atto di vederlo, dando troppo credito alla pretesa universalità delle immagini. Certo, vederlo in un insieme, nella nostra sismografia simulata del cinema dei mesi a venire, può aiutare. Ma quel che conta è suscitare un?operazione attiva da parte dello spettatore. Dentro il ritrovamento di situazioni condivise. Non sono linee tendenziali, vengono dal risultato non previsto delle selezioni 2006, dal particolarissimo incastro di opere solo di rado apparentabili, di dinamiche potenzialmente interagenti e di esperienze comunque irrimediabilmente comunicanti. E ciò non tanto per patrimoni ideali, esigenze culturali comuni a registi e produttori, quanto per una loro capacità di generare fratture, squilibri rivelatori.

Quella contemporanea non è solo un?epoca del cinema che non sa manifestare altro futuro che la mera estrapolazione del presente ? un tempo che ci pesa addosso come perenne immota attualità. Un cinema che non sa più costruirsi sulla propria memoria.

La memoria, ad esempio, di un Roberto Rossellini (prezioso tra tutti, questo centenario) che, alla fine di una guerra, inventa con tre soli film il cinema moderno, anticipando di oltre un decennio la sua nascita ufficiale. Esemplare, Rossellini: rimane fedele a se stesso malgrado gli strappi e i cambiamenti (lo accusano, a torto, di auto-tradimento) nell?evoluzione di una concezione del cinema, e della televisione, con la quale non abbiamo mai smesso di fare i conti. Perchè, per mettersi in gioco completamente, è necessario potersi anche contraddire. Mettersi in gioco per meglio aprirsi. Come dovremmo fare con gli spettatori della 63. Mostra: continuare a fare loro domande, leggere gli spettatori come se fossero una domanda invece che una risposta. Per trovare così il modo di comunicare loro una febbre, e, insieme, la sua eventuale, ma non necessaria, cura possibile. Non necessaria perchè sentiamo che i film che quest?anno incontreranno qui i loro primi spettatori, fanno parte di un cinema davvero sempre meno tossico, che può non aver più bisogno di uno spettatore assuefatto.